Al lucerna Gallery di Castiglione della Pescaia – Gr
a cura di Massimo Viti e Mauro Papa
dal 15 giugno al 30 giugno
inaugurazione venerdi 18 giugno ore 19.00
«E il settimo giorno, Dio si riposò da tutte le opere che aveva portato a termine» (Gen 2,2).
Il settimo giorno Dio si riposò. Spense ragione, emozioni e interessi – qualità faticose che anche lui/lei possiede, se siamo fatti a sua somiglianza – e si cullò in una svagata sospensione dell’esistenza, nella nostalgia del distacco da ciò che si era infine separato e, allo stesso tempo, nel riconoscere che ciò che aveva fatto nascere rimaneva parte di sé meritando amore e confidenza. La stessa sospensione, la stessa nostalgia, la stessa empatia d’affetti che – si capisce – ha vissuto Germano Paolini dopo aver dato l’ultima pennellata di vernice a queste opere. E la stessa sospensione, la stessa nostalgia, la stessa empatia d’affetti che vivranno tutti coloro che guarderanno dal vivo queste opere e che vi riconosceranno una singolare grazia e meraviglia, come di fronte a un mondo vergine appena creato. Un mondo da quinto giorno, però, quando l’uomo non era stato ancora plasmato, o un mondo da fine dei giorni, quando l’apocalisse trascinerà tutti via, lontano. Perché questi dipinti sono, prima di tutto, deserti. Non vuoti, ma deserti. A volte nuvole incombenti, minacciose sull’orizzonte, preconizzano un destino di tempesta che mai ci toccherà, a noi che stiamo fuori dal dipinto. E questo ci rapisce e ci rassicura. Perché noi non siamo, oggi, l’uomo romantico di Caspar Friedrich, quello dentro il quadro che guarda l’abisso sublime. Ma condividiamo invece lo sguardo confidente di chi osserva – da fuori – la Maremma edenica di un Paride Pascucci o di un Memo Vagaggini, oppure quella rinata e bonificata di un Felice Andreis. A me, personalmente, questi paesaggi ricordano i campi di grano assolati descritti dalla superba fotografia di Italo Petriccione nel film Io non ho paura di Giuseppe Tornatore. Quella era Basilicata, questa è Maremma, ma nel settimo giorno tutti i luoghi si assomigliano, se riescono a offrirci riparo e ristoro. Perché quelli di Paolini non sono solo paesaggi toscani, ma paesaggi universali, vividi e vivi di grumi di colore palpitante che creano il volume e non colorano semplicemente la superficie delle cose. In uno di questi dipinti c’è un bellissimo paesaggio che descrive un profilo ondulato su cui brilla, come una gemma abbagliante, una piccola casa bianca e compatta. Ed ecco che, guardandola, mi vengono in mente altre corrispondenze visuali, questa volta con i paesaggi fotografati da Moira Ricci, con quei casolari granitici privi di porte e finestre, quasi monoliti extraterrestri. Questi paesaggi vuoti aspettano qualcuno che mai arriverà: contadini, cittadini, alieni o migranti.E, a proposito di migranti, sono esemplari le marine di Paolini. Quelle per cui avevo già scritto questo testo, che ripropongo: “Attraverso le marine Germano racconta i suoi personalissimi migranti, che in fondo non sono che i suoi giorni che passano nella disposizione all’attesa e alla speranza, alla cordialità e all’ospitalità, alla volontà di soccorrere e accogliere. Qualcuno ha scritto che l’arte non serve per indicare, ma per far sentire. Ad esempio, un quadro notturno non dovrebbe scrivere la notte, illustrarla, ma farci vivere l’emozione del buio e del silenzio. E allora realizzo che adesso, per me, queste marine stanno diventando preziose ed eloquenti. Perché non solo evocano un tempo lento e meditato, privo di drammi e di colpe, un tempo disposto a fermarsi. Ma soprattutto perché fanno sentire il senso di smarrimento e, allo stesso tempo, la voglia di abbandonare le rotte consuete, quelle che urlano all’evento sensazionale della tragedia, alla violenza dei corpi esibiti nello spettacolo della comunicazione pervasiva, al dolore reiterato e incompreso che si dissangua in rapida e anestetica assuefazione. Queste marine fanno sentire la voglia di naufragare dalle nostre solitudini, come fossero derive di umanità, galleggiamenti di senso abbandonati a nuove correnti che, senza solennità e retorica, sublimano in un mondo pacificato l’intensità e l’essenza di una vocazione troppo spesso soffocata, quella di riconoscersi negli altri”
Mauro Papa.